Nel 2016 il Governo di Matteo Renzi tentò di stravolgere la Costituzione con una riforma che criticai (G. L. Verrina, Crepuscolare riforma costituzionale e crisi della democrazia, ARACNE EDITRICE, 2016, Canterano (RM), 15-199), affermando: «Non possiamo, non dobbiamo assecondare l’eccessiva prudenza di una cultura politica che continua a vivere tranquillamente la notte della democrazia, aspettando che venga il messia, il deus ex machina che difenda le nostre libertà e quelle dei nostri figli (Cfr. op. cit. 15).» Ora, come allora, posso ancora affermare che il messia è in mezzo a noi: è la Costituzione del 1948 che il Presidente della Repubblica deve difendere, essendone il garante e custode, quando la democrazia, per sua essenza imperfetta, ma perfettibile, è in pericolo. Nella riforma costituzionale del Governo Meloni non c’è la benché minima parvenza di luce, di princìpi e valori, che fanno parte integrante della Carta del 1948, e che possono essere così sintetizzati: libertà, eguaglianza, giustizia e democrazia. Non c’è un “oltrepassamento dell’apaideusia”, ovvero di quell’ignoranza in cui rimangono imprigionati coloro che rifiutano di conoscere la verità (a-lethéia). La politica populistica del Governo è nemica della democrazia costituzionale: il Parlamento viene privato della sua autonomia e libertà ed è subordinato al premier. Il Presidente della Repubblica, d’altro canto, subirebbe una vera e propria deminutio capitis, giacché non potrebbe più svolgere la funzione di garanzia costituzionale non solo nella dinamica fisiologica e in quella patologica del sistema e, cioè, nei momenti di crisi dell’ordinamento, né potrebbe, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o solo una di esse, né nominare il Presidente del Consiglio e, su proposta di questo, i ministri, e non sarebbe più, per intuibili ragioni, il rappresentante dello Stato nella sua unità. Il premier sarebbe l’unica “voce solista”, il demiurgo della politica, l’unto del Signore. La separazione delle carriere, peraltro, sarebbe un’arbitraria e illiberale categorizzazione dei magistrati che, lungi dall’essere sorretta da una ragione di ordine funzionale, limiterebbe, sine ulla ratione, la libertà dei magistrati in ordine alla scelta delle diverse funzioni. Il principio del bilanciamento tra i poteri dello Stato cesserebbe di esistere. L’ubi consistam della pericolosa riforma è nel suo essere liberticida, con grave pregiudizio anche per l’indipendenza della magistratura. Cicerone direbbe:«In profundo veritatem penitus abstrudere» (“Nascondere completamente la verità in un abisso”).